Come noto nel nostro ordinamento giuridico qualora il datore di lavoro licenzi almeno 5 dipendenti nell’arco di 120 giorni si configura il licenziamento collettivo, con applicazione della disciplina prevista dalla legge n. 223/91 e della relativa procedura sindacale per le aziende con più di 15 dipendenti.
Ma cosa si intende a questi fini per licenziamento? Sul punto è recentemente intervenuta una nuova interpretazione da parte della Corte di Cassazione.
Storicamente la giurisprudenza in Italia ha sempre inteso la nozione di licenziamento ai fini della normativa sui licenziamenti collettivi in senso tecnico, ritenendo dunque che non potessero essere ad essa assimilate né le risoluzioni consensuali né le dimissioni, seppure incentivate.
La normativa nazionale costituisce però attuazione di una direttiva comunitaria (la n. 59 del 1998) che nei propri “considerando” afferma che “per calcolare il numero di licenziamenti previsti nella definizione di licenziamenti collettivi ai sensi della presente direttiva, occorre assimilare ai licenziamenti altre forme di cessazione del contratto di lavoro per iniziativa del datore di lavoro, purché i licenziamenti siano almeno cinque”. Sulla base di tale criterio la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (con sentenza 11 novembre 2015, causa C-422/14) aveva precisato, in una decisione relativa al diritto spagnolo, che “il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientra nella nozione di «licenziamento»” prevista dalla direttiva sopra citata.
Sul punto è da ultimo intervenuta anche la Corte di Cassazione, facendo proprio tale orientamento della Corte di Giustizia Europea. In particolare con sentenza n. 15401/2020 la Corte ha affermato il supermento del proprio precedente orientamento sopra richiamato - secondo cui ai fini della disciplina del licenziamento collettivo occorreva tener conto esclusivamente dei licenziamenti in senso tecnico dovendo escludere altre ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro - ed ha specificato, con riferimento al caso oggetto della decisione, che dovevano essere computate anche le risoluzioni consensuali stipulate a seguito del rifiuto dei lavoratori al trasferimento di sede lavorativa.
Al momento non è ovviamente possibile sapere se tale pronuncia resterà un precedente isolato e quindi minoritario, oppure se costituisce l’inizio di un nuovo e diverso orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, che in tal caso avrebbe evidentemente un impatto notevole nell’ambito della gestione degli accordi individuali a cui possa essere applicato il criterio interpretativo sancito dalla Suprema Corte. Giova comunque tenerne conto sin da subito nel computo del numero delle risoluzioni dei rapporti di lavoro che possono integrare la fattispecie del licenziamento collettivo, con conseguente applicazione della relativa disciplina.